Le pagine di cronaca nera sono piene di storie di donne che uccidono pazienti gravemente malati o difficili da curare. Non sempre, come potremmo aspettarci, si tratta di un gesto dettato dalla pietas umana e alla base di tali crimini non c’è la volontà di alleggerire le sofferenze altrui. L’ultimo è il caso dell’infermiera Daniela Poggiali di Lugo di Romagna, sospettata di aver ucciso 38 persone di un Ospedale. Con l’ultima si è scattata anche un selfie. Eppure la donna rappresenta la vita che dona col parto; è l’accoglienza, la protezione sia dei bambini che degli anziani. Quando porta la morte la donna è più vicina alla figura affascinante della femmina accabadora che in alcune zone della Sardegna, fino agli anni ’30, uccideva i malati anziani in condizioni terminali o in agonia, effettuando di fatto una sorta di Eutanasia. La femmina accabadora operava nella massima discrezione svolgendo un ruolo sociale ben preciso in una società per lo più povera e senza possibilità di raggiungere strutture sanitarie; operava di notte, vestita di nero e col viso coperto; entrava nella camera della morte e metteva fine alle sofferenze del malato soffocandolo col cuscino o con un colpo di “mazzolu” (una sorte di bastone di legno di olivastro). Qualche volta soffocava il malato mettendo la testa in mezzo alle gambe. La femmina accabadora era una presenza naturale nella comunità come quella della levatrice: vita e morte. Sia nel caso della femmina accabadora, sia nel caso dell’infermiera di Lugo di Romagna, siamo di fronte ad omicidi. Ma nel primo caso si tende a parlare di Eutanasia, quel produrre una “morte dolce e facile” al malato sofferente e, l’orrore del crimine, viene superato dal sentimento compassionevole ed spirituale verso l’altro; un gesto che rimane chiuso all’interno della famiglia, di una stanza. Nel secondo caso, invece, siamo inorriditi per il gesto, certo, ma ancora di più per l’atteggiamento dell’autrice del crimine, disinvolto e plateale, tanto da spingere il giudice a dire che lo avrebbe fatto solo per “volontà di compiacimento e di sopraffazione di chi versava in condizioni di debolezza”. Un atteggiamento che è il segno inequivocabile del nostro tempo in cui il prendersi cura della persona malata viene cancellato dalla necessità di apparire fino a spingersi ad un selfie con la propria vittima.