Gli hanno rotto le dita delle mani, intimandogli simbolicamente di non scrivere. Oleg Kashin, giornalista moscovita del Kommersant journal, vittima di un agguato, versa in condizioni drammatiche. Giaceva riverso, davanti casa, quando è stato rinvenuto. Gli aggressori restano ignoti ma il messaggio lasciato sulle mani della vittima, non lascia ombra di dubbio: “Non scriverai più verità scomode. It’s over”. Da anni Kashin si occupava dei retroscena scandalosi che si consumavano ai vertici della politica; la sua vena icastica ed irriverente non risparmiava neppure la Chiesa ortodossa. Il presidente russo Medvedev si dice indignato per l’accaduto ed assicura che farà di tutto per identificare i responsabili. Promesse che non suonano nuove ma già fatte e disattese per i precedenti casi: Anna Politkovskaya docet. La vicenda di Kashin, ricorda la natura sui generis del giornalismo russo. E’ una professione che richiede spirito di abnegazione ma soprattutto un’elevata dose di rischio, se si decide di non siglare un implicito patto di fedeltà con la politica. Kashin non era un eunuco del potere ma un servitore della verità, la sua mission si fondava sull’ informazione chiara e trasparente. Il giornalismo non si scrive con le mani, sebbene esse ne siano lo strumento, né con gli occhi che catturano ed immortalano i fatti. Il giornalismo si fa con la voce che nasce dal pericoloso senso di denuncia. Di conseguenza, se gli aggressori di Kashin potrebbero aver pensato: “It’s over”, l’appello corale della comunità internazionale dovrebbe essere: “The voice must go on”. Non c’è bisogno di ancora altre dita che scrivano ma di prime voci che denuncino.
(foto immagine da Google)