Prendo spunto da un articolo apparso su un giornale locale, nel quale il sindaco di un paese del cuneese, lamenta, non senza una dose di amarezza, l’impossibilità di mantenere il decoro della sua piccola urbe per mancanza di senso civico di gran parte dei suoi concittadini. In particolare, avendo redarguito una ragazza che, accovacciata sulla spalliera di una panchina, sporcava con i piedi la seduta, veniva prima rimbeccato con giustificativi di scarso spessore (“il sedile era già sporco e non potevo sedermi”, fatto negato dallo stesso sindaco) ed in seguito preso a male parole dalla madre della sedicenne. Saltabeccando qua e là in articoli di vari giornali, riferiti ai figli “bamboccioni”, definizione coniata, nella sua semantica, da Padoa Schioppa ed elevata al rango di neologismo dal ministro Brunetta, leggo alcune interpretazioni banali e superficiali sulle radici del fenomeno, attribuito ai sistemi educativi degenerati, e su altri la sua presunta eziopatogenesi, imputata alla generazione ribelle del ’68, incapace di maturare e trasmettere in tal modo ai propri figli, modelli educativi di sviluppo facendo di ogni erba un fascio, come se tutta la generazione sciagurata di quegl’anni, avesse partorito solo “no-global” e figli anarchici dei centri sociali. Ed è nella memoria di ognuno di noi, la “boutade” di creare una legge ad hoc che obblighi tali figli ad andarsene di casa dopo i trent’anni. A mio avviso il problema è molto più ampio di quello descritto e le soluzioni imposte per legge, sono ciò che di più lontano possa esserci per assomigliare ad una soluzione. L’iperprotezionismo famigliare ed il “bamboccianismo”, mi si passi il termine, non derivano certo solo dal ’68, che fu anche il frutto di una reazione ad una società di regole divenute vuote di significato in quanto dissociate da comportamenti coerenti, negli effetti pratici, ed interpretate come fasulle, emanazioni di ipocrisie strumentali. Ma ha radici culturali molto più arcaiche, tipicamente insite del DNA italico delle mamme (non di tutte, fortunatamente), in assenza o in tacita complicità dei padri, orfani di un ruolo chiaro. In assenza di mariti che siano tali e padri che facciano i padri, l’equilibrio educativo si sposta verso una famiglia matriarcale, nella quale la donna deve essere tutto senza avere il tempo o lo spirito di sacrificio, di essere educatrice: negli anni ’40 per troppo tempo a disposizione, negli anni attuali per troppo poco. Educare significa “e-ducere”, cioè condurre fuori, liberare alla luce ciò che è nascosto; tale processo inculca nell’individuo regole ed insegnamenti di comportamento condivisi nel gruppo familiare e nel più ampio contesto sociale nel quale è inserito. Non è un ruolo facile, quello dell’educatore, spesso senza riconoscimenti se non nel medio-lungo termine e soprattutto, vi è calato sia il padre che la madre in una sintesi di buon equilibrio e reciproco aiuto, dove il padre modera gli atteggiamenti iperemotivi materni e viceversa quelli iperlogici paterni. Quando il bilanciamento viene a mancare, sfocia verso un modo monco di concepire l’educazione ed i valori. Come sostenevo, tali atteggiamenti asimmetrici però non hanno età; con il mio lavoro, vengo a contatto con realtà famigliari moderne ed antiche e non c’è una vera e propria degenerazione legata a momenti storici, che possono facilitare indubbiamente, ma che non hanno forza se il nucleo d’insieme è saldo, equilibrato, dedicato e chiaro nei ruoli, assumendo troppo spesso il ruolo di alibi. Nelle forme più degenerate in alcune famiglie, si ha la sensazione che i figli siano concepiti con l’unico scopo di fare i badanti dei genitori in età adulta. Più volte ho sottolineato la sottile perfidia (scusate ma in questo caso non è amore verso i figli) usata dai genitori, principalmente le madri, che in psicologia si chiama doppio legame: è un misto di permessi offerti e negati, di scelte apparentemente libere ma pilotate, condite di sensi di colpa sottili e striscianti o prese di posizione di difesa ad oltranza, che mettono al laccio il figlio, negandogli l’affrancamento. Un tipico esempio musicale,almeno alla mia interpretazione personale, fu la canzone di Beniamino Gigli “Mamma son tanto felice…”osannato ma intriso, ad una lettura psicopatologica, di oscure manipolazioni, se in bocca ad un over quaranta. Ecco dove nascono i veri baboccioni, non quelli che non possono allontanarsi dalla famiglia per motivi economici e non trovano lavoro (ma il lavoro va anche cercato adattandosi, almeno inizialmente). Naturalmente al seguito di questo “primum movens”, si aggregò la scuola che, dopo i trascorsi bacchettoni dei secoli scorsi, precipitò per reazione in quella aberrazione di regole e di insegnamenti (siamo negli anni ’70), che lasciarono gli studenti in balia di loro stessi, creando uno stallo culturale da cui stentò a riprendersi. Opportunamente pilotata da utilitarismi politici, la scuola perse il suo ruolo di educatrice, preparatrice al lancio in società e divenne un enorme bacino di parcheggiati universitari che, in molti casi, vivacchiarono d’insipienza senza nulla offrire in cambio. In tali situazioni lo scambio generazionale alle leve del potere fu fragile ed inconsistenze, fatto con gente arrogante, ignorante e di cattivo esempio. Questo lo possiamo osservare quotidianamente nella corte dei miracoli della politica, sia al governo che all’opposizione dove il confronto viene sostituito con l’insulto dell’avversario, e le regole sono sovvertite o interpretate a piacimento senza il minimo imbarazzo, vergogna o decoro. Ma soprattutto vengono calpestate iniziative legislative di buon senso, volte verso il bene comune, solo perché proposte da un avversario politico. In questo clima, come possiamo parlare ai nostri figli di educazione, di buon esempio, di bene comune? Possiamo solo comportarci con chiarezza, coerenza, comprensione e rigore, quando necessario, tacitando i nostri egoismi ed innalzando il nostro spirito di sacrificio, considerando che i nostri figli sono il nostro futuro. Sarà bene darsi da fare, poiché il problema delle generazioni del domani è legato alle massicce ondate di migranti che attraversano e colonizzano l’Italia: gente che mette a rischio la vita pur di garantirsi un futuro, che cosa ha da temere?di cosa potrà mai spaventarsi? Acquisirà capacità culturali e tecniche e si sostituirà lentamente all’inizio nei lavori di manovalanza, poi in quelli dell’artigianato, vera radice italiana per storia e cultura, ed in seguito alle alte sfere, quelle decisionali. L’invasione si combatte così, riprendendo in mano la nostra vita, non già piagnucolando o imprecando contro gli ingiusti dei. Un esempio?. L’altro giorno viene in studio una famiglia marocchina composta di padre, madre e quattro figli: persone estremamente educate e cortesi, che rispettano le leggi in generale e le regole dell’ambulatorio in particolare, sebbene siano in condizioni disagiate. Ebbene, dopo aver consigliato qualche giorno di riposo alla figlia affetta da tonsillite che frequenta prima media, ella mi scoppia in lacrime. Domandatogliene il motivo, mi sento rispondere che non voleva rinunciare alla scuola perché avrebbe saltato un’interrogazione: è la prima della classe!(foto e immagini da Google)