Innumerevoli sono le iniziative culturali messe in opera nel nostro Paese per celebrare il centocinquantesimo dell’unità d’Italia. Convegni e dibattiti stanno analizzando vari aspetti del Risorgimento e dei periodi successivi sotto ogni aspetto. Ci sembra interessante soffermarci su un tema senza dubbio unificante l’identità nazionale che è quello della cucina.
Occorre notare immediatamente che il modo di mangiare e di cucinare alla metà dell’800 era profondamente diverso dall’attuale. La cucina era povera, ossia le materie prime erano di quantità e di qualità nettamente inferiore rispetto ad oggi. L’economia era essenzialmente agricola ed il lavoro nei campi veniva faticosamente svolto manualmente o con l’aiuto degli animali, buoi e cavalli, che trainavano l’aratro per la lavorazione del terreno. L’agricoltura, si sa, è soggetta agli andamenti del tempo atmosferico, anche se attualmente i sistemi di irrigazione ed altri accorgimenti tecnici consentono di supplire, almeno parzialmente, alle bizzarrie meteorologiche. Quello che si poteva raccogliere nei campi veniva messo in pentola. Spesso si trattava di erbe spontanee, che unite a patate o altri ingredienti, contribuivano a realizzare zuppe di scarso valore nutritivo. Il mais da polenta era molto diffuso specialmente al nord e al centro Italia ed il pane costituiva l’alimento fondamentale. Anche il consumo di vino, come apportatore di calorie, era molto elevato.
Nelle famiglie italiane accadeva assai di rado di mangiare la carne. Le mucche e i buoi avevano essenzialmente la funzione di bestie da lavoro e venivano macellate soltanto al termine della loro vita produttiva. Molto diffusi erano gli animali da cortile, polli e conigli, con i quali convivevano gli abitanti delle campagne. Il pollo doveva diventare adulto per essere gallina e produrre uova. Poteva essere macellato e cucinato solo se una persona della famiglia stava male o se l’animale stesso dava qualche segnale di malattia. Accadeva così che prima che la natura compisse il suo iter, il pollo finisse sulla tavola. Si diceva allora che se un povero mangia un pollo o è ammalato il povero o è ammalato il pollo.
Con l’avvento della industrializzazione degli allevamenti animali e con la meccanizzazione dell’agricoltura è cambiato moltissimo. La carne bovina è diventata disponibile a prezzi accettabili ed è entrata nella nostra dieta in modo stabile. La pasta ha sostituito la polenta di mais per divenire il piatto nazionale, apprezzato in tutto il mondo. Le verdure sono disponibili tutto l’anno grazie alla possibilità di produrre nelle serre riscaldate.
Dunque una vera rivoluzione. I Padri fondatori della Patria non riconoscerebbero il loro modo di mangiare e così, noi se dovessimo fare un salto indietro nel tempo, non saremmo in grado di accettare la ripetitività dei piatti di epoca risorgimentale e loro pochezza nutrizionale. Per non parlare dell’igiene in generale ed in cucina in modo particolare. Non erano ancora conosciute ed applicate le più elementari norme igieniche e, a titolo di esempio, per molte famiglie “andare a letto con le galline” aveva un significato reale.
Questi primi centocinquant’anni di storia d’Italia hanno segnato una effettiva unificazione delle nostre Regioni sotto molti aspetti, ma quello della cucina risalta in modo particolare. Pur mantenendo intatti quegli aspetti territoriali e le differenze regionali che sono il carattere distintivo di una italianità culinaria diffusa e largamente apprezzata in tutto il pianeta.
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