L’acqua sale, lentamente ma inesorabilmente, portando con sé detriti, tronchi, in un pericoloso rimescolio di ramaglie e fango. Il fragore dalle rive della Dora, secondo fiume di Torino, è un ruggito, un cupo brontolio che sembra originare dalle profondità dei monti, dalle valli da cui si origina e transita, in genere placido e tranquillo. Ma pronto a riprendersi gli spazi stretti nei quali l’uomo lo ha costretto, in argini innaturali, serpente argenteo, marrone e cupo. Il fiume è libero, come l’uomo, ed è una lotta continua nel corso dei secoli, anche se impari, perché la natura si può ingannare, ma non per un tempo indefinito. E quando meno te lo aspetti, essa si ribella e ristabilisce le regole, ahimè presto nuovamente infrante. Il frastuono è ancora più impressionante visto che cade nel vuoto, nel silenzio di un corso Svizzera quasi deserto dalle automobili e si mescola allo scroscìo dell’acqua sull’asfalto. Lontano la fila di ambulanze lampeggianti nella notte che attendono di caricare alcune decine di pazienti dell’ospedale Amedeo di Savoia che si affaccia con i suoi padiglioni, sull’ansa del fiume, per trasportarli al sicuro in altri ospedali cittadini. Una sirena dei pompieri ulula in lontananza. Poco più in là le transenne per mettere in sicurezza la zona. Alcuni addetti della protezione civile guardano l’acqua scuotendo la testa; altri si affannano con i cellulari monitorando costantemente il livello delle acque che viene scrutato continuamente. Qualche curioso che scatta istantanee. Cammino, i piedi nell’acqua. Lo spettacolo è surreale, fantastico; così come le luci dei semafori che alternano il verde ed il rosso con i loro riflessi sull’asfalto lucido. In una città come Torino dove la tecnologia è all’avanguardia, dove il senso di potenza lo intuisci dai palazzi, dalle sue vie, ordinate e luminose, dalla sua storia che emerge ad ogni angolo, avverti un senso di incompletezza, di indefinita malinconia. E’ uno scorcio dove gli uomini assistono, non potendo fare altro, e sperano. E aspettano. Aspettano che il grande cielo smetta di saettare gocce, che torni la luna e, magari, domani il sole. Rassegnazione? No, non c’è rassegnazione, ma voglia di ricominciare a vivere, a lavorare, domani o dopo. Ma ora non resta che aspettare che tutto passi, magari senza danni. Certo, non piangiamo morti, non ci disperiamo per i disastri di cui a ragione ben altri cittadini devono lamentare; non abbiamo visto, questa volta almeno, i fiumi sulle strade come nel duemila e speriamo di non vederli più. Ma resta quella malinconia per la inettitudine dell’uomo, tanta presunzione e reale pochezza di fronte ad eventi più grandi di lui. Ma è un bene, un modo di crescere. Una consapevolezza che la realtà non è virtuale, come internet ed il mondo della comunicazione vogliono farci credere, ma è fatta anche di fango e disperazione. Meglio riflettere, meglio fermarsi un momento, mentre l’eco della sirena si allontana. (foto ed immagini da google)