«Ecco, tutto questo era mio. Coltivavo caffè e patate, avevo mucche, capre e pecore. Guadagnavo bene e ogni anno con un milione di scellini (262 euro) potevo permettermi di mandare i miei tre figli a scuola. Volevo che diventassero dottori. Invece, un anno fa mi hanno confiscato tutto, bruciato la casa e picchiato brutalmente. Ho abbandonato la terra e sono andato a vivere da mio fratello. Ospite, senza più un lavoro. E i miei figli non vanno più a scuola». Si sfoga, con le lacrime agli occhi, Paulo Ntesemana, guardando e indicando dall’ alto della collina quella che fino a pochi mesi fa era la sua terra. Paulo è uno dei 20mila contadini ugandesi che stanno vivendo il dramma dell’ esproprio delle loro terre. Tragedie silenziose, che non fanno rumore, il cui eco arriva difficilmente nei salotti delle popolazioni più ricche. L’ acquisto dei terreni agricoli ad opera di grandi compagnie occidentali non avviene solo in Uganda. Diverse indagini dell’ Onu e di alcune organizzazioni non governative dimostrano come sia diventata una pratica diffusa in tutta l’ Africa e non solo. La riforestazione e l’ uso intensivo di campagne poco coltivate, perché destinate a un’ agricoltura di sostentamento, potrebbero portare benefici sia alle economie povere sia all’ ambiente. Ma purtroppo non è così, perché i contadini che da anni abitavano quelle terre sono stati espropriati senza ricevere alcun indennizzo. A partire dal 2001, nei Paesi in via di sviluppo, 227 milioni di ettari, vale a dire una superficie grande quanto l’ Europa Occidentale, è stata data in concessione a società straniere. Soprattutto cinesi e indiane, ma anche coreane o europee. Dati impressionanti che raccontano di una vera e propria colonizzazione. A fare incetta di terreni, in Uganda, è stata la britannica New Forests Company (NFC), il cui presidente, Julian Ozanne, è stato corrispondente del Financial Time da Nairobi. Parliamo di uno dei più competenti giornalisti durante la guerra dell’ Onu in Somalia all’ inizio degli anni ’90: scriveva di business, adesso è lui a fare business. Basta pensare che in Uganda, Tanzania e Mozambico, la NFC gestisce 90mila ettari. Sono state estirpate le coltivazioni originali costituite da banani, manghi, avocado, fagioli, cereali e altro per piantare pini ed eucalipti. A sentire Matt Grainger dell’ Ong Oxfam International va tutto bene: «Le nuove piantagioni – afferma Grainger – hanno portato lavoro e gli alberi contribuiranno ad evitare che la produzione di legname avvenga sfruttando le foreste naturali. Inoltre si potranno vantare i carbon credit, previsti dal trattato di Kyoto. Non solo - prosegue il rappresentante della Ong -. La NFC, in Uganda, ha aperto scuole, piccoli ambulatori, programmi economici con le comunità locali. Ha scavato pozzi e costruito latrine. Il contratto non prevede una vera vendita, ma un permesso di utilizzo che, per evitare un effetto devastante sull’ economia locale, vieta comunque di coltivare piante destinate al cibo, allevare animali e costruire case. Il progetto è buono». Se le cose stanno così, vien da chiedersi, qual è il problema? Il problema è che si sono violati degli equilibri delicatissimi nell’ economia e nella struttura sociale di questi popoli che faticosamente cercano di svilupparsi. Oltre ai problemi che possono nascere nei mercati interni, in Africa, la gestione della terra comprende sistemi di proprietà e di utilizzo basati su consuetudini. Quelli che in Europa si chiamerebbero diritti «acquisiti» in Africa sono «tradizionali». Un sistema che riguarda l’ organizzazione sociale e che assegna alla proprietà fondiaria un ruolo importante. Ormai, attualmente, nel continente, solo una parte esigua della terra appartiene a proprietà individuali. In Uganda, alla NFC, sono state affidate tre piantagioni, nei distretti di Mubende, Kiboga, e Bugiri, per complessivi 20mila ettari, nei quali sono stati piantati 12 milioni di pini ed eucalipti. I terreni sono dello stato che li aveva concessi in uso ai veterani di guerra come riconoscimento per aver combattuto insieme alle truppe britanniche in Egitto e in Birmania. In Kiboga alcuni contadini le coltivavano da più di 40 anni e le avevano tramandate a figli e nipoti. Alcune erano state cedute con regolari contratti di vendita. «Possedevo tre ettari di terra. Mi avevano assicurato che mi avrebbero ricompensato. Invece è arrivato un gruppo di militari, guidato a distanza da tre muzungo, tre bianchi - è il racconto di Besigye Chance -. Mi hanno intimato di sloggiare. Esitavo e mi hanno picchiato e minacciato di violentare mia moglie. Mentre scappavamo abbiamo visto che distruggevano la mia casa e bruciavano il bananeto». Purtroppo questa non è l’ unica testimonianza che narra di violenze e sopraffazioni. Ce ne sono tante che provengono dai villaggi ai margini delle piantagioni della NFC. Una stima di Oxfan parla di oltre 20mila persone cacciate. Bumusiba Ridia, 11 figli, il marito in ospedale, mostra i documenti che comprovano l’ effettiva proprietà di un terreno confiscato e si sfoga così: «Ci chiamano abusivi, ma sono loro che hanno agito illegalmente per portar via le nostre proprietà. Eravamo ricchi, ora siamo poverissimi». «Il progetto – insiste Matt Grainger – è buono, ma perché sbatter fuori la gente così? I contadini sono disposti a spostarsi se potessero ricevere nuove terre o i soldi per comprarle. Così non si fanno gli interessi delle popolazioni ma si impoveriscono interi villaggi. Gli effetti potrebbero essere catastrofici». Fatti che ci fanno rivivere la storia del continente africano quando, fino al secolo scorso, le potenze coloniali e i coloni stranieri si impossessavano ingiustamente di terreni agricoli africani, allontanando le popolazioni che vi risiedevano. Purtroppo, a quanto pare, la storia si ripete in un silenzio assordante, le ingiustizie a danno dei più deboli e indifesi continuano a perpetrarsi. Ma con quale faccia poi, ci vengono a parlare di guerre giuste scatenate contro i tiranni di turno? Se siamo proprio noi dei cosiddetti Paesi civili e sviluppati ad usurpare e rapinare le ricchezze di chi non ha la forza per difendersi? La verità, piaccia o non piaccia, è che ogni guerra nasce solo da sporhi interessi economici, e non da una vera volontà di fare affermare diritto e giustizia. (Foto e immagini da Google.it)