Tutti abbiamo sentito parlare, almeno una volta, del reato di “apologia del fascismo“, per cui viene spontaneo chiederci quali siano i fatti concreti che possono configurarlo.
Il reato di “apologia del fascismo” è previsto dalla XII disposizione transitoria della nostra Costituzione che vieta la riorganizzazione, sotto qualsiasi forma, del disciolto partito fascista: si tratta della Legge 23 giugno 1952 n. 645 “Norme di attuazione della XII disposizione transitoria e finale (comma primo) della Costituzione”, c.d. “legge Scelba”; l’art. 4, intitolato appunto “Apologia del fascismo”, prevede che: “Chiunque fa propaganda per la costituzione di una associazione, di un movimento o di un gruppo avente le caratteristiche e perseguente le finalità indicate nell’articolo 1 è punito con la reclusione da sei mesi a due anni e con la multa da lire 400.000 a lire 1.000.000. Alla stessa pena (…) soggiace chi pubblicamente esalta esponenti, principi, fatti o metodi del fascismo, oppure le sue finalità antidemocratiche. Se il fatto riguarda idee o metodi razzisti, la pena è della reclusione da uno a tre anni e della multa da uno a due milioni. La pena è della reclusione da due a cinque anni e della multa da 1.000.000 a 4.000.000 di lire se (…) commesso con il mezzo della stampa(…)“.
Sono dunque due le fattispecie, individuate dalla norma, che possono determinare il verificarsi di questa ipotesi di reato: fare propaganda allo scopo di costituire un’associazione, movimento o gruppo che abbia le caratteristiche del disciolto partito fascista oppure esaltare pubblicamente personaggi e/o ideologia del fascismo. La norma prevede anche un’aggravante, il riferimento ad idee o metodi razzisti dell’ideologia fascista.
La distinzione tra queste due fattispecie non è stata probabilmente ben focalizzata da subito, tanto è vero che la giurisprudenza si è inizialmente concentrata sulla prima. Si ricorda, in proposito, una sentenza della Corte Costituzionale ( n. 1 del 26/01/1957) - originata da più di un ricorso in cui si sollevava il dubbio di legittimità costituzionale della legge Scelba con riferimento alla libertà di manifestazione del pensiero prevista dall’art. 21 Cost - che fissò il principio secondo cui l’apologia del fascismo, per assumere carattere di reato, deve consistere “ non in una semplice difesa elogiativa, ma in una esaltazione tale da potere condurre alla riorganizzazione del partito fascista”.
A conforto di tale sentenza della Corte costituzionale è intervenuta poi una sentenza della Cassazione, del 06/06/1977, la quale ha ulteriormente precisato che la libertà di manifestare il proprio pensiero non trova limiti “ideologici” nella Costituzione, neppure quando la manifestazione abbia per oggetto il fascismo. Questo è il motivo per il quale determinati partiti possono esistere: la condivisione di alcune idee del fascismo, non potendo essere considerata “riorganizzazione del partito fascista”, rientra nella libertà di manifestazione del pensiero e nella libertà di associazione (art. 18 Cost.) . Pertanto, a ben vedere, il reato di cui si parla può definirsi più precisamente “divieto di riorganizzazione del partito fascista”.
D’altro canto, di apologia del fascismo tout court, per così dire, si può parlare forse solo riguardo alla seconda fattispecie individuata dall’articolo 4: esaltazione pubblica di esponenti, principi, fatti o metodi del fascismo, o delle sue finalità antidemocratiche. Qui a ben vedere è proprio la pubblica esaltazione in quanto tale a dover essere considerata punibile se potenzialmente pericolosa.
In merito però la giurisprudenza non è del tutto concorde: la Suprema Corte ( Cass. Pen. Sez. VI, sent. n. 24184 del 17.6.2009) ha confermato la pena inflitta dalla Corte d’appello di Firenze ad un cittadino che, in concorso con altre persone, durante una pubblica riunione, aveva effettuato il saluto romano scandendo “slogan inneggianti al razzismo e al regime fascista”. In tal modo, la Cassazione ha precisato che il “saluto romano“, espressione gestuale ben nota, non è espressione della possibilità di manifestare liberamente il proprio pensiero, ma un’istigazione all’odio razziale, vale a dire che istiga alla violenza. Si aggiunga anche che esiste una legge, la n.205 del 25/06/1993 (c.d. legge Mancino) – che sanziona e condanna gesti, azioni e slogan legati all'ideologia nazifascista, e che hanno lo scopo di incitare alla violenza e alla discriminazione per motivi razziali, etnici, religiosi o nazionali, e punisce anche l'utilizzo di simbologie legate a suddetti movimenti politici – la cui applicazione va evidentemente coordinata con le norme ed i principi di cui sopra.
Più di recente, i giudici di legittimità hanno stabilito che costituisce reato, previsto e punito dall'art. 5 della L. n. 645 del 30 giugno 1952, avere - durante un incontro pubblico tenutosi in memoria delle vittime delle Foibe - compiuto manifestazioni usuali del disciolto partito fascista, consistenti nell'urlare in coro "presente" e nel fare il saluto romano.
La punibilità deriva dal fatto che le manifestazioni usuali del disciolto partito fascista risultano operate in pubblico e pertanto appaiono idonee a determinare una situazione di pericolo per le istituzioni democratiche, correlata alla volontà degli agenti di suscitare consensi e diffondere concezioni favorevoli alla ricostituzione di organizzazioni fasciste, nulla togliendo alla pericolosità concreta della condotta il fatto che gli altri partecipanti alla manifestazione condividano l'ideologia fascista ed il ricorso agli atti simbolici, anzi ciò ne rappresenta una conferma, trattandosi di comportamento idoneo a rafforzare una volontà di riorganizzazione tra più soggetti, né rileva il mancato compimento - durante la manifestazione - di atti di violenza che potrebbero comunque dare luogo ad incriminazioni diverse ed ulteriori. (Cass. Pen., sez. I, sentenza 12/09/2014 n. 37577).
Tuttavia alcuni giudici di merito, con decisioni destinate ad alimentare polemiche, hanno operato qualche distinzione: secondo il Tribunale di Livorno, ad esempio, il saluto fascista allo stadio non è reato. Il giudice toscano, infatti, in una sentenza del marzo 2015, sostiene che il contesto nel quale esso si colloca (una manifestazione sportiva) fa “dubitare fortemente che il gesto sia stato idoneo a pubblicizzare idee violente e discriminatorie, che sia stato finalizzato alla ricerca di consensi in questo senso, che abbia avuto concrete possibilità di raccogliere adesioni”.Per il giudice quindi si tratta di una semplice“provocazione rivolta verso gli avversari” durante una manifestazione sportiva che “non è normalmente il luogo deputato a fare opera di proselitismo”.
Altra grande e attualissima questione è quella riguardante l’uso dei social network. In proposito, si moltiplicano i casi di denunce relative alla pubblicazione di frasi, simboli, foto, video di esaltazione, più o meno esplicita, del fascismo o alla creazione di intere pagine o profili sull’argomento. Se ne citano un paio estremamente significativi.
Il primo risale al giugno del 2014: sulla pagina Facebook di un signore friulano compare una foto di Mussolini mentre fa il saluto romano, con a fianco una frase che invita i «veri fascisti» a cliccare mi piace su di essa. Il caso finisce sul tavolo della Procura di Udine dopo una segnalazione anonima di qualcuno che, navigando in rete, scopre la foto e avverte la polizia postale. Al termine delle indagini, il Gip del Tribunale di Udine dispone l’imputazione coatta. La Procura aveva invece chiesto l’archiviazione del caso, ed è questo un aspetto interessante, essendo risultata vana una richiesta di informazioni a Facebook sul titolare della pagina. La società statunitense aveva riferito che, per policy aziendale, fornisce le informazioni solo a seguito di formale rogatoria internazionale. (fonte:http://messaggeroveneto.gelocal.it/).
Un altro caso è rilevante a causa delle sue implicazioni politiche: nel 2010, una giunta comunale leghista, in un paese in provincia di Bergamo, cade indirettamente per colpa di Facebook, o meglio, dell’uso inappropriato che ne fa un utente, il quale pubblica una propria foto che lo ritrae mentre esegue il saluto romano, l'immagine di una Lombardia colorata di nero e sovrastata dalla scritta Fascismo e Libertà e da uno stemma del Partito Nazionale Fascista. Si dà il caso che l’utente sia anche un consigliere comunale di maggioranza e che il fatto metta in imbarazzo il Sindaco che si dimette anche se, ufficialmente, lo fa per le difficoltà economiche in cui versano le casse comunali (fonte: milano.corriere.it).
C’è chi ritiene che si debba intervenire anche coinvolgendo i responsabili dei social network interessati, che sono dei soggetti privati ma hanno una regolamentazione interna (su Facebook chiamata “Standard di comunità”): sul sito change.org (https://www.change.org/p/mark-zuckerberg-facebook-rimuova-i-contenuti-di-apologia-del-fascismo) è in corso una raccolta di firme a supporto di una petizione con la quale si chiede a Mark Zuckerberg, fondatore di Facebook, di inserire negli “Standard di comunità” anche il reato di apologia del fascismo, sul presupposto che anche se Facebook “è un network mondiale, deve rispettare le leggi fondamentali degli Stati, ad esempio la Costituzione italiana.”
In definitiva, e a ben riflettere, In Italia, al di là di ogni ipocrisia, bisogna decidersi: se è vero, come è vero, che l’antifascismo è il valore fondante della nostra Carta, allora, coerentemente, l’ideologia fascista deve essere considerata un disvalore sul quale non può e non deve prevalere neanche la libertà di manifestazione del pensiero. In altre parole, il valore della democrazia, in antitesi rispetto al fascismo, va considerato come un bene da tutelare e difendere da offese quali gridare slogan fascisti, fare il saluto romano, esporre i fasci littori o, in genere esaltare l’ideologia del Ventennio, anche sui social network. Negare questo vuol dire non conoscere, o far finta di non conoscere, il cuore pulsante della Costituzione repubblicana.
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